La storia di una Campania meno conosciuta, quella dell’entroterra, che vive all’ombra della più famosa costa, ma che custodisce un ricco patrimonio culturale e naturalistico.
Taurasi e l’Irpinia sono un microcosmo dove il tempo sembra rallentare, dove ogni scelta è una sfida e ogni passo un atto di fede nella terra e nelle sue possibilità.
Dove il coraggio di Gianluigi non sta solo nel recupero di un vitigno quasi estinto o nella scelta di rimanere in un luogo tanto isolato quanto culturalmente ricco come Taurasi.
Ma anche nel suo impegno a conservare un patrimonio familiare e culturale che rischiava di scomparire. Nella fiducia che il suo lavoro, i suoi sacrifici e le sue scelte porteranno frutti che non si misurano solo in bottiglie prodotte, ma col riuscire a tramandare la civiltà del suo territorio.
Le persone: Gianluigi e Franco Addimanda, Fratelli
Dove: a Taurasi, in provincia di Avellino, Irpinia, in Campania
Segni particolari: ”Ma se questi due vitigni, Aglianico e Roviello Bianco son qua da 200 anni, un motivo deve pur esserci! Per cui sì, dopo la laurea io ho reimpiantato questo vitigno a bacca bianca in terra di rosso, a Taurasi.”
No, la Campania non è tutta costa, mare e cuoppo.
“…domani, sai, parto. Per andare ad incontrare nuove persone.”
“E dove vai?”
“A Taurasi! Altra bella zona per il vino.”
-silenzio-
“Sai dov’è Taurasi?”
“Ehm… no.”
“Aaaaa ma chiedimelo, no?! Taurasi è in Irpinia, in provincia di Avellino. In Campania.”
“Ah vabè, ma allora ti fai una anche una bella passeggiata in spiaggia. Una bella nuotata a Capri e poi un bel cuoppo non te lo leva nessuno!”
“Mmmmm non proprio, sai. Mica c’è il mare, lì. Lo sai che io vado lì per cercare il vino e i racconti di vita delle persone che hanno voluto dare la propria interpretazione taurasina all’Aglianico!”
Ecco, questa semplice chiacchierata tra amici mi ha fatto riflettere su una cosa. C’è un preconcetto diffuso che tende ad identificare la Campania solo col mare della costiera amalfitana, il blu, il giallo e il bianco di Capri, le lucine, la movida e il frastuono del turismo di massa.
Ma la Campania non è solo mare, non è solo Napoli, non è solo Costiera Amalfitana, non è solo cappellone di paglia, occhialoni, costume, pareo e ciabattine strusciate per il lungomare. Non è solo parole urlate che riecheggiano nei vicoli intrappolati in un cemento di fuoco.
C’è anche l’altra Campania. Quella che ho conosciuto io andando a trovare i Fratelli Addimanda, Gianluigi e Franco.
L’altra Campania: una terra di mezzo custode di civiltà.
L’altra Campania per me è Taurasi. Sospesa nel tempo, l’ho scoperta nell’ovatta dei giorni più freddi dell’inverno col suo verde ristoratore, il placido gorgogliare di fonti e di ruscelli che arrivano da lontano e l’aria che sa di buono sì, non solo per i polmoni ma anche per l’anima.
Lì dove le vigne vanno cercate perchè accoccolate negli abbracci di boschi, uliveti, vallate e pascoli.
È incredibile come questo territorio abbia ancora voglia di dare così tanto dopo quella data che ha segnato un prima e un dopo per l’Irpinia.
Quella domenica del 23 novembre 1980 è ancora una data di ricordi e di incubi per menti e cuori di tante generazioni. Un’energia che la terra ha sprigionato senza ritegno ha lasciato tanti senza quel riparo quotidiano costruito coi risparmi di una vita. E non solo.
Mentre passeggio in vigna con Gianluigi l’occhio si posa su una sorta di alloggio, proprio dietro il casale di famiglia che custodisce anche la cantina.
Ecco quell’alloggio temporaneo costruito dopo la catastrofe del terremoto era diventato per i suoi genitori un vero e proprio stabile posto sicuro.
Dal viverci giusto il tempo di sapere se il loro casale fosse ancora abitabile o meno, sono passati a voler vivere lì. Per la paura di sentire di nuovo un boato e poi gli scricchiolii sinistri del terremoto.
Ma l’Irpinia non è solo storia di terremoti e sbornia post ricostruzione di un tentativo di sviluppo industriale che non ce l’ha fatta.
Condivido in pieno le parole di Nicola di Iorio che descrive l’Irpinia come la storia di “un borgo, un grande borgo diffuso spalmato tra valli, colline e monti […] un borgo che sta alla civiltà contadina come la città sta a quella industriale e globalizzata. […] La storia di paesi adagiati su spuntoni di rocce simili a zanne di elefanti costruiti in modo da guardarsi tra di loro […] e ogni paese guardava l'altro, consapevole di come la propria salvezza passasse necessariamente per la salvezza di quello vicino.”
Qui la catena appenninica ha creato uno spartiacque allontanando fisicamente e culturalmente il mare della costa campana da una vita fatta di borghi arroccati e nascosti nell’abbraccio dei boschi. Una vita di montagna su un terreno difficile in cui impari ad accettare il sacrificio.
Un retroterra del litorale campano più difficile da raggiungere, più isolato sì, ma proprio grazie a questo una fortezza di conservazione di biodiversità e civiltà.
L’Irpinia è uno dei luoghi visitati in cui la cultura della civiltà fa sì che i paesaggi vitivinicoli non siano solo pali verticali e corde orizzontali che sbrilluccicano ai raggi del sole a perdita d’occhio. In poche parole, fa sì che i paesaggi vitivinicoli non siano tutti uguali ma raccontino ancora qualcosa del suolo, del clima e delle scelte del vignaiolo.
Così come “prima di cinquant’anni fa la vigna raccontava la terra, il clima e il vignaiolo. La cultura della tradizione faceva sì che ogni zona e ogni clima avesse una serie di vitigni ritenuti adatti e un sistema di allevamento adeguato a temperatura, intensità delle piogge e periodo di raccolta. L’uomo ha sempre cercato un compromesso con la natura, in millenni convivenza. Oggi l’uomo cerca un compromesso con la sola produzione e vendita”.
È insomma uno di quei luoghi in cui, come dice Flavio Castaldo nel suo libro Racconto di una corsa nella terra del vino: “Le piante delle viti e tipi di impianti” ti “affascinano, ti raccontano tante storie”.
E sono proprio quelle zone sufficientemente isolate che conservano un’originale identità che evolve nel tempo col rispetto delle generazioni che l’hanno costruita.
Il coraggio della scelta parte uno: cos’è la Starseta.
Ma cosa ho trovato di tipico nell’irpina Taurasi? Per esempio la Starseta. E non solo quella.
Ma partiamo intanto da quella.
Mai sentita nominare? E se ti dico Tennecchia? O Raggiera Avellinese? Dai dai, lo so che già qualcosina hai capito!
La Starseta è l'antica struttura di allevamento vitivinicolo tipica dell'Irpinia.
Vista dall’alto forma come una rete da pesca. Di quelle coi buchi quadrati dove ogni vertice è una vite e ogni lato le braccia con cui la stessa vite sostiene le sue compagne di poligono.
Questa forma di allevamento della vite sembra derivare dall’arbustum gallicum padano ed è una testimonianza della presenza di popolazioni gallo-liguri trasferite coattivamente dai Romani proprio nella zona di Taurasi nel II secolo a.C.
Ma perchè proprio questa forma di allevamento della vite? Lo chiedo a Gianluigi mentre passeggiamo sotto una ragnatela estesa di fili di ferro che si sostengono l’un l’altro. Lì, nel silenzio di quel vigneto da cui tutto è partito, quell’appezzamento lasciato inalterato e tramandato fatica dopo fatica dal bisnonno al nonno e dal nonno ai genitori.
“Sai Massimiliano, da questo fondo il mio nonno e il mio bisnonno hanno tratto tutta la loro economia. Era un’esigenza coltivare così!”
“La Starseta nasce per esigenze del contadino che prima aveva bisogno di coltivare su 3 livelli per aumentare le coltivazioni nel solito pezzo di terra. Sotto si coltivavano ortaggi, grano, cereali, mais. La parte mediana veniva occupata invece dalla vite che, essendo una pianta rampicante ha bisogno di un sostegno, morto, o vivo come le piante da frutto. In questo modo la pianta da frutto fruttificava sopra la vite e quindi si potevano raccogliere anche i frutti. Così in un ettaro di terreno, avendo 3 livelli di coltura, si facevano 3 raccolti. Questa cosa al livello economico è molto diversa rispetto ad oggi e alle esigenze dei vigneti a spalliera specializzati.”
“Poi, negli anni, le persone hanno cercato fortuna lontano dalla campagna, è diminuita la manodopera e così la Starseta è stata abbandonata. E sai qual è il problema qui? Allora, prima era tutto un unico reticolo di Starsete anche al di fuori dei confini dei fondi. Ma se ho tre terreni a Starseta e quella del campo centrale viene meno perchè abbandonata, beh, i confinanti hanno un problema nel legarsi e quindi le Starsete dei campi ai lati collassano, facendo sparire forzatamente anche quelle che magari volevo mantenere in vita. Quindi qui il danno diventa esponenziale!”
Ma a cosa era maritata la Starseta?
“Nella Starseta la vite era maritata ad un albero da frutto, tipicamente la vecchia Ciliegia Maiatica di Taurasi (soppiantata dalla Ciliegia di Vignola che è più carnosa e più grossa, più produttiva) che anni fa era utilizzata sia per le confetture che sottospirito. In particolare, al centro del fondo la vite era maritata agli alberi da frutto mentre sui confini era maritata agli olmi, alberi che non fruttificano, così chi passava non poteva rubarne i frutti!”
Il coraggio della scelta parte due: Grecomusc’, un bianco in terra di rossi, anzi di Ta-u-ra-si.
La passeggiata continua. I passi sono lenti. In sottofondo il solo cinguettare e ogni tanto in lontananza qualche rara macchina che passa. L’aria è sottile e fresca, i raggi di sole decisi quanto basta per sciogliere la brina su quei tronchi nodosi che arrivano fin sopra le nostre teste.
Decido che è arrivato il momento di saperne di più sulla storia di Gianluigi. Come mai ha deciso di rimanere qui a Taurasi? Cosa lo lega a questa terra? Ci fermiamo ad ammirare uno di quegli intrecci. Sfrutto il momento di silenzio per togliermi qualche curiosità. Vado con le domande.
Gianluigi riordina un attimo i pensieri e poi parte così. Dall’inizio, mi dà un contesto per capire l’identità, le origini, i perchè. E io non posso chiedere di più!
“Massimiliano, è stata l’evoluzione naturale delle cose. Sai che oggi in Irpinia ci sono tantissime piccole aziende a produzione familiare. Negli anni passati invece c’erano poche grandi aziende dove tutti i vignaioli conferivano le proprie uve. Col passare degli anni i prezzi delle uve si abbassavano sempre di più e contestualmente il contadino non riusciva più a vivere coi frutti del proprio lavoro. In contemporanea è avvenuta la scolarizzazione di massa per cui in ogni azienda il figlio si è appassionato al lavoro del padre così decideva di fare l’istituto tecnico agrario o l’Università di agraria e finiva per chiedersi… ma perchè non proviamo a farlo noi il vino?!”
“Mio bisnonno” continua “conduceva questo fondo come contadino. Lui e la sua famiglia vivevano dei suoi frutti. Poi, col passare degli anni, non riuscivano più a sostenere la famiglia e da lì la decisione. O abbandonava tutto per emigrare vendendo i fondi ai grandi o, come invece ha fatto, decideva di investire.
E noi abbiamo deciso di investire in prima persona su Aglianico di Taurasi e Roviello Bianco perchè siamo a Taurasi e non aveva senso investire in vitigni internazionali.”
Ecco si entra nel vivo del discorso. Io mi faccio tutto orecchi e a Gianluigi vengono proprio fuori le corde della sua anima. Lo ascolto per comprenderlo. E già inizio piacevolmente a immaginare quale sarà il carattere che avrà dato ai suoi vini. Intanto mi ronzano in testa le domande sul Roviello Bianco. “Aspetta Massimiliano!” mi dico “C’è ancora tempo! Aspetta!”.
“Ma come questo con la laurea s’è ammattito e ha piantato vitigni bianchi??! A Taurasiiii??! Mi hanno preso per pazzo sai dopo la laurea. Per la mia scelta.
Certo avrei potuto piantare Fiano e Greco, altre due DOCG importanti della zona… però mi son detto: ma se questi due vitigni, Aglianico e Roviello Bianco son qua da 200 anni, un motivo deve pur esserci! Per cui sì, dopo la laurea io ho reimpiantato questo vitigno a bacca bianca in terra di rosso, a Taurasi.
Io l’ho fatto per distinguermi e metterci del mio. Per tipicizzare, per identificarmi e non produrre una bottiglia delle tante.
Crediamo molto in quello che facciamo e ci mettiamo tanta tanta tanta passione.
E poi in corso d’opera vedremo se traiamo i frutti o soccombiamo perchè il mercato dice che dovevamo mettere Fiano o Merlot!”
E come lo chiami tutto questo se non il coraggio della scelta? Il coraggio di portare aventi il proprio sentire, le proprie convinzioni anche quando ti danno per matto. Anche quando arrivi a farti una passeggiata per strada e senti i chiacchiericci della gente che mormora di te e delle tue scelte ma tu te ne infischi e lasci che sia il tempo a parlare di te.
Gianluigi mi dice che quando ha fatto quella scelta (quella di piantare il Roviello Bianco in una terra di rossi) ancora non c’era il boom dell’autoctono. Non si vuole definire un visionario per questo. Ci tiene a precisare che la sua scelta è stata agronomica e passionale.
“Era una scommessa e come tutte le scommesse, poteva essere vinta o si poteva perdere ma diciamo che ce la stiamo ancora giocando per cui i traguardi non sono ancora stati raggiunti. In ogni modo la scelta rimane, e molto coraggiosa pure!”
Lasciamo il vigneto e mettiamo piede in cantina. Il portone si apre lentamente e mi vien da dire: “e dove si passa ora?!” Lo spazio è piccolo tra i tini d’acciaio. Disegno una S seguendo Gianluigi che si muove lesto in quello spazio angusto. Mi faccio piccolo piccolo con le braccia in avanti per assottigliarmi. Mi fermo due o tre volte per recuperare lo zaino impigliato che pare non ne voglia sapere di venire con me!
Arriviamo nella stanza dei legni e trovo le barrique.
Gianluigi forse si accorge della mia espressione titubante e mi tranquillizza subito: “Uso la barrique per far evolvere prima l’Aglianico. Perchè le botti grandi sono la tradizione ma l’Aglianico è già un vitigno tardivo per maturazione. Se poi ci metti una botte grande, praticamente, per far venir fuori un Aglianico ci vogliono 20 anni di media. E io come piccolo produttore dovrei stoccare troppo vino anticipando molti fondi. Arrivi al ventesimo anno e inizi a vendere la prima bottiglia. Non è possibile per una piccola azienda familiare che fino a qualche anno fa vendeva le uve e poi si è avventurata nel mercato del vino.”
Mi piace la sua risposta. Schietta, sincera, pragmatica. E aggiunge: “Se tu dovessi applicare tutta la tradizione di una volta, dove hai le risorse per sostenere tutto questo anticipo finanziario?”
Lasciamo la cantina e saliamo le scale. Pronti per assaggiare i vini. Si unisce a noi anche Franco, fratello di Gianluigi. Partiamo dal bianco. È l’occasione per saperne un po’ di più sul Roviello Bianco. E io non vedo l’ora.
“Partiamo dal dire che tutti i nuovi impianti sono a spalliera ma abbiamo preso le marze dai vecchi impianti sia di Aglianico di Taurasi che di Roviello Bianco. Di questo abbiamo la fortuna di custodire ancora 4 viti prefillosseriche!
D’altra parte qui il terreno è franco sabbioso e questa è una di quelle cose che ha fatto sì che la fillossera non abbia attaccato più di tanto le viti.
Ma anche per il fatto che una volta qua non c’erano gli impianti specializzati di oggi quindi c’era minor possibilità di contagio. Non c’erano distese di vigneti ma un vigneto, un oliveto, un frutteto, etc. etc. . Le varie culture si alternavano di fondo in fondo.”
Ma torniamo al Roviello Bianco. Col vino nel calice di fronte a me, Gianluigi ci tiene a farmi vedere un documento incorniciato da cui desumo la sua importanza.
“Hanno autorizzato il Roviello Bianco nella regione Campania dal 2009. Lo hanno censito come uva coltivata in Irpinia ma secondo gli studi dell’Università Agraria di Portici questo vitigno risaliva a fine 1593.
C’è un documento di un nobile mercante napoletano che commercializzava le uve Roviello Bianco in Irpinia, proprio nel comune di Taurasi.
Da un’analisi fatta dall’ufficio di viticoltura dell’ispettorato agrario di Avellino, risulta che esistano solo 4 ettari di vigneto di Roviello Bianco in tutta l’Irpinia e noi ne abbiamo poco più della metà. Abbiamo iniziato a vinificarlo dal 2016.”
Un vitigno che occupa solo 4 ettari della superficie vitata italiana. Qui siamo di fronte ad un vero e proprio vitigno autoctono italiano raro, una reliquia. Mi viene subito in mente di chiedere perchè sia stato abbandonato ma non ce n’è bisogno. Gianluigi mi precede nello sfamare la mia curiosità.
“Il Roviello Bianco è un vitigno difficile. Molto acido e poco produttivo. E i contadini non potevano permettersi di aspettare troppo che l’acidità (si parla di 9gr/litro alla vendemmia!!!) si arrotondasse oltre al fatto che desse poca produzione. È così che è stato abbandonato.
Qui in dialetto si chiama Grecomusc’. È un nome che viene dagli anni passati e in parte dovuto anche all’ignoranza. All’epoca si sapeva che a Tufo ci fosse l’uva bianca Greco di Tufo appunto, da qui Greco. Musc’ perchè questa varietà ha la tendenza ad avvizzire già in pianta. Questo avvizzimento naturale veniva preso come segnale di vendemmia. Se l’acino iniziava ad appassire allora era anche meno acido e quindi pronto per la vinificazione.”
La bottiglia di Grecomusc’ che ho davanti a me prende il nome di Aciniell’. Non posso non chiedergli subito il perchè di questo nome.
“Aciniell’ perchè quest’uva era talmente tanto poco produttiva che aveva un grappolo spargolo e l’acino molto piccolo. Così piccolo che controluce si vedono i vinaccioli. Anche la buccia è molto sottile e la polpa è poca per cui non ha resa e i nostri antenati in dialetto dicevano chist’ è un aciniell’, che vo fà?! Tradotto, quest’uva ha l’acino piccolo, produce poco (ricordiamoci che prima era la quantità ad essere cercata). Per noi oggi il rapporto buccia polpa a favore della buccia ci premia dal punto di vista della concentrazione anche se la resa è intorno al 45%. È davvero poco se lo paragoniamo all’Aglianico che dà il 70-75% mentre Fiano e Falanghina rendono intorno all’80%. Da qui si capisce bene il motivo principale per cui il Grecomusc’ ha rischiato l’estinzione!”
Gli incontri col vino in stile Addimanda: Grecomusc’ aka Aciniell’ e Aglianico.
Sì ma com’è questo Grecomusc’? Ecco, un attimo. Ora ci arrivo. Prendo il calice e ti dico cosa ci ho sentito io.
Un’evoluzione continua di profumi nel calice mano a mano che si scalda. Al naso il primo impatto è di frutta gialla matura. Basta un attimo e gli fanno compagnia le erbe aromatiche. Timo, salvia e rosmarino prima di tutte, rinfrescate da un agrumato che sa di cedro, più dolce e soave del limone. Al palato non ha spigoli. Non nel senso che sia piacione e ruffiano eh. Mantiene infatti un’acidità e una sapidità evidente (di quella sapidità che strizza l’occhio al Carricante per intenderci, quella sapidità che solo una matrice vulcanica sa dare ai vini) rimanendo comunque armonico. È pieno, ha volume, quasi si mastica e il suo ricordo rimane a lungo e ancora a lungo nel tempo. Complice forse quel rapporto buccia polpa a favore della prima, come diceva prima Gianluigi.
E l’Aglianico secondo Addimanda? Il timbro che lo contraddistingue secondo me è la speziatura. Una piacevole spezia piccantina che si unisce alla freschezza del cardamomo e la succosità vivace dell’amarena al palato. Un naso che ricorda in qualche modo l’elegante austerità di un Barolo di Serralunga dove però al gusto si fa strada una componente più fruttata che balsamica. Deciso e coraggioso come chi si mette in gioco senza temere i chiacchiericci di paese. Non so te ma a me questa cosa ricorda proprio quel qualcuno che lo ha pensato.
Di quei viaggi e persone che ti cambiano il modo di vedere le cose.
Ci prendiamo una pausa. Ci affacciamo sul terrazzo. Parliamo. Non è facile fare una scelta del genere. Come quella di Gianluigi intendo. Soprattutto in un paesino abitato da poche anime. Le voci girano. Non è facile avere il benestare e l’approvazione dei genitori. Nel provare a fare qualcosa di diverso in cui però tu credi tanto, così tanto da dedicargli il tuo percorso di vita.
Però vedi in fondo “un’azienda senza vigna è destinata a fallire” mi dice Gianluigi riprendendo le parole del professor Moio. “E qui ho il fondo da dove è nato tutto, è quello che ci hanno tramandato i nostri nonni e che spero di poter tramandare ai nostri figli. Alla fine noi non abbiamo fatto niente, abbiamo raccolto quello che ci hanno lasciato e lo abbiamo portato avanti, il grosso lo hanno fatto loro.”
Non solo coraggio della scelta ma anche tanta umiltà. E una civiltà che va avanti nel rispetto di chi è venuto prima di noi e ci ha dato solidi radici su cui impiantare il nuovo. Sempre e solo con lo spirito dell’artigiano così bravo a governare al meglio l’imprevedibile con quello che ha a disposizione.
Si chiude così un altro di quei viaggi che non ti fanno solo compagnia con nuovi luoghi da scoprire ma ti fanno conoscere nuovi modi di vedere le cose grazie alle storie che ogni persona porta con sè.
Uno di quei viaggi in cui - riprendendo ispirazione da Flavio Castaldo - “mi incanto spesso a guardare le piante di vite, diverse le une dalle altre: alte o basse, secolari o giovani, che fanno la storia, il paesaggio e la ricchezza di questa terra.”
Dove il ritorno ti fa pensare a come “la vigna sia il lavoro di un anno intero, il prezzo che la natura fa pagare all’uomo per donare i suoi frutti. Ogni stagione ha la sua fatica: le potature nel freddo dell’inverno per preparare alla nuova crescita, quelle primaverili per scegliere i rami che dovranno fruttare, in estate la cimatura per evitare che i rami scendano e facciano troppa ombra alle uve. Infine, prima della raccolta, a settembre, all’inizio dell’autunno, la sfogliatura per liberare il grappolo. La vigna va accudita per evitare le malattie, concimata per nutrirla e tenuta libera dalla vegetazione spontanea per farla crescere rigogliosa. È un anno di lotta contro l’ambiente perché la natura non vuole essere addomesticata. Al lavoro si accompagna il patimento per il clima che anno per anno è sempre incerto. […] Tra le vigne ti rendi conto che ogni tipo di clima condiziona non solo la giornata, ma l’anno (piovoso, caldo , freddo, secco, umido). Quanti dubbi rovinano il sonno vignaiolo, che deve ricavare da questa fragile pianta il suo sostentamento. […] È un lavoro a lungo termine: sono i tempi che la natura detta, non possono cambiare.”
E qui ti lascio il saluto che Gianluigi ha fatto a me: “ […] Mastroberardino dice che per fare una bottiglia di vino ci voglia una sperimentazione di circa 200 anni. Noi è da pochi anni che abbiamo iniziato a sperimentare quindi un poco alla volta vediamo com’è. E poi io da qui a 200 anni ho poco da fare sicchè ogni anno posso anche fare una cosa diversa, toh!”
Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo:
- Vitigni storici d’Irpinia - Assessorato Agricoltura Regione Campania
- Vitienologia in Campania - I caratteri originali e l’impatto del Programma di Sviluppo Rurale - Regione Campania - Assessorato Agricoltura
- Atlante geologico dei vini d'Italia. Vitigno, suoli e fattori climatici. - AA. VV.
- Racconto di una corsa nella terra del vino di Flavio Castaldo
- Rosso dalla terra - il Taurasi e l'Irpinia legati da un unico futuro di Nicola di Iorio
- Una mattina di chiacchiere a passeggio nel vigneto insieme a Gianluigi e Franco Addimanda