Massimiliano era alla ricerca di storie capaci di raccontare l’identità di ciascuna delle 11 UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) del Chianti Classico, in vista della Masterclass che sta organizzando per il prossimo autunno.
L’obiettivo? Un viaggio nelle diverse sottozone, cogliendone l’essenza attraverso vini che riflettano realmente il territorio da cui nascono.
Così, in un pomeriggio dell’afoso giugno appena passato, lo accompagno a conoscere Sofia Ruhne di Terreno. Il nostro primo incontro è intorno ad un tavolo, in uno di quei locali fiorentini che mette insieme la cultura dei libri coi piaceri della tavola.
Azzurro quasi ghiaccio negli occhi, capelli biondi e lineamenti nordici: tutto sembra parlare di freddezza. Ma basta un sorriso per capire che invece, di fronte a noi, batte uno dei cuori più caldi che si possano incontrare. Appena parla, appena ride, capisci che non c’è nulla di freddo in lei: solo calore, gentilezza e accoglienza.
Dall’eleganza discreta e un carisma quieto, Sofia incarna pienamente alcuni tratti distintivi della cultura svedese: l’essenzialità delle cose, la gentilezza profonda e concreta, la capacità di osservare e comprendere l’altro prima ancora di parlare. È accogliente e mai invadente, attenta e mai ostentata.
Assaggiamo i suoi vini partendo dai bianchi, per poi passare alle due Gran Selezione di Chianti Classico.
Colpiti e affondati.
Sia dai bianchi che dalle due interpretazioni di Gran Selezione. Ancor più facile coglierne le sfumature grazie alla scelta – per nulla scontata – di proporle dalla stessa annata (2019) e con lo stesso metodo di vinificazione.
Le chiediamo il contatto e qualche giorno dopo siamo da lei. Da Terreno, a Greve in Chianti.

Oh qui sì (a casa sua) che si percepisce ancora di più quell’impronta mista tosco-svedese. Vien fuori proprio il concetto chiave dello “Jantelagen”, una norma culturale scandinava non scritta che disincentiva l’autocelebrazione e promuove l’umiltà. Minimalismo, funzionalità, estetica sobria, concetto del bello ma utile. Tutte cose che si ritrovano sia nell’architettura delle strutture di Terreno che nei suoi vini. Ma anche entusiasmo e movimento continuo per sperimentare sempre cose nuove.
Insieme a Sofia ci accoglie Giacomo Fioravanti, l’enologo che si prende cura dei vini di Terreno. Ci ritroviamo seduti, in tranquillità, intorno ad un tavolo con in mano un calice di Otto, il loro bianco macerato di Trebbiano Toscano in purezza che tanto ci è piaciuto.
Giacomo inizia a raccontare. Per farci capire subito lo spirito della famiglia Ruhne, ci parla del loro “The Winery Hotel - un pezzo di Terreno a Stoccolma”.

Un albergo con una urban winery nella propria hall che in epoca di vendemmia riproduce tutte le fasi della vinificazione, a partire da uve coltivate in Toscana che arrivano a Stoccolma in un camion refrigerato.
È un esempio concreto dell’approccio culturale e didattico di Sofia: condividere, educare, coinvolgere attivamente con uno spirito creativo.
“Ogni anno in quella cantina sperimentale proviamo a fare un vino diverso con le uve vendemmiate direttamente dai vigneti di Terreno qui nel Chianti Classico. Una volta si fa un rosato, un’altra volta un Sangiovese, un’altra ancora un Cabernet. E poi abbiamo anche 3 barrique di legni diversi (francese, americano e svedese) proprio per far assaggiare l’impronta che legni diversi lasciano sul vino.”
Ogni settembre, il tema dominante al Winery Hotel è la vendemmia. E per far vivere in prima persona la lavorazione delle uve che arrivano a Stoccolma dai vigneti toscani, Sofia ha pensato all’esperienza “winemaker for a year”.
Gli ospiti dell’hotel partecipano attivamente alla lavorazione delle uve, aiutano con la cernita dei grappoli, pigiano l’uva con i piedi e seguono tutte quelle fasi che avviano l’uva verso la fermentazione fino all'imbottigliamento del vino ogni anno diverso.
Poi entriamo nel vivo dei vini di Terreno. Giacomo si alza e si assicura di avere sotto mano la mappa del Chianti Classico.
Gli diciamo che siamo alla ricerca di Chianti Classico davvero diversi tra di loro ed espressivi delle tipicità della zona in cui sono nati e cresciuti.

Giacomo prende subito le briglie del discorso partendo, non a caso, dalle Gran Selezioni di Terreno. Proprio quelle che ci avevano tanto colpito in diversità la prima volta che abbiamo incontrato Sofia a Firenze.
“Terreno, l’azienda, è costituita da 20 ettari totali di vigna con la particolarità di avere 3 unità produttive, 2 sulla riva destra del fiume Greve e una sulla riva sinistra che è Sillano” - mentre parla seguiamo il suo dito sulla mappa per capire bene dove ci troviamo e dove si trovano i vigneti.
“Quello che si nota sulle nostre Gran Selezione è proprio la diversità tra riva destra e riva sinistra del fiume Greve. Tra la vigna vecchia di Terreno da cui produciamo ASofia e le vigne di Sangiovese a Sillano dove produciamo la Gran Selezione Sillano, appunto. E le diversità tra i due vini si apprezzano ancora di più considerando che seguono il solito processo di vinificazione.
Quindi la riva destra di Greve, soprattutto la parte di Terreno (che è il versante dove ci troviamo adesso), poggia sul Macigno del Chianti (un’arenaria di origine marina composta soprattutto da sabbia che nel tempo si è compattata in roccia, nota anche come “pietra serena”) che tende a dare vini più pronti, più profumati e meno tannici.”
E ce lo ricordiamo bene la ASofia 2019! Elegante, fresco, con una spiccata nota di pepe nero, erbe aromatiche, il balsamico dell’eucalipto e la succosità saporita dell’arancia sanguinella.
“…mentre il vino di Sillano, a sinistra del Greve si differenzia. Si sente da subito come molto più robusto e tannico.” Più chiuso al naso, aggiungo io. È un vino che devi aspettare nel calice perchè si apra poi su una spezia un po’ più dolce del suo compagno ASofia. Ma la sorpresa è al gusto. Sapido, piccante, in bocca prende il suo spazio piano piano, senza invadere ma con eleganza. E rimane lì. Continua ad abbracciarti col suo ricordo.
“…ecco questo è dovuto dall’insieme dei 500 metri di altitudine con un terreno più ricco di Pietraforte che c’è a Sillano, terreno molto povero che dà meno produzione e vini più carichi di tannino pur mantenendo eleganza e acidità grazie all’altitudine.”
Se ti stai chiedendo cosa sia la Pietraforte, ecco che ci viene in aiuto il geologo del Chianti, Andrea Garuglieri. Lui la descrive come una sabbia compattata molto simile al Macigno ma destinata a diventare “pietra” arenaria “forte”, cioè “resistente” all’erosione, una specie di calcestruzzo naturale con grani “cementati” da calcite per infiltrazione, nel tempo, di acque ricche di calcare nei sedimenti sabbiosi.
Ma ritornando al vino, ecco che son bastati pochi minuti di chiacchierata con Giacomo che già abbiamo tutti i perchè di quelle diversità che avevamo percepito al naso nelle due Gran Selezione: l’espressione più pronta e profumata della riva destra di Greve nell’ASofia vs l’austerità e la freschezza, la profondità al gusto di Sillano, sulla riva sinistra di Greve.
Giacomo riprende il discorso: “Ripartendo dagli ettari, tra i già detti 20 ettari di vigna, ne abbiamo 8 nella zona di Terreno, il centro aziendale dove ci troviamo adesso e che è stato acquistato dalla famiglia Runhe nel 1988 come primo nucleo dell’azienda che poi si è ampliata.
Da Terreno poi, negli anni 2000, hanno acquistato 7 ettari nella collina di fronte, detta Le Bonille di Sopra, dove si fa la Riserva e dove sono stati piantati nuovi vigneti sempre negli anni 2000 con un lavoro interessante sui nuovi cloni di Sangiovese. Qui abbiamo un terreno un po' più profondo, un po' più ricco di scheletro che dà vini più corposi ed è il motivo per cui è da lì che facciamo la riserva.”
Aggrotta un po’ l’espressione, prende il respiro, si fa coraggio e aggiunge una curiosità sul plot delle Bonille: “…unico neo delle Bonille è che ci sono vigne strette ad 1 e 80.” Ma che vuole dire praticamente? “Che c’è alta densità e questo è proprio frutto del tempo. Negli anni 2000 si faceva tutto sotto 1 e 80, dagli anni 2000 in poi siamo passati a 2 metri, 2 metri e mezzo. Ora sotto i 2 metri e mezzo non pianta più nessuno. E se uno ci lavora lo capisce perché avere le vigne strette ti comporta avere macchinari stretti e tutto il doppio tipo di lavorazioni. E quando si rompe un trattore stretto e non te lo rendono a breve o non te lo sostituiscono è un problema perché perdi trattamenti e prodotto.”
È stato un fiume in piena Giacomo nel raccontarci i problemi di vita reale in vigna. Non lo abbiamo mai interrotto ma forse lui percepiva indirettamente le nostre domande dall’espressione curiosa delle nostre facce.
”…però è anche vero” continua “che il mio grande maestro lo diceva sempre! Quando c'hai 7000 piante, un vigneto ti dura quarant'anni invece che 20! Infatti se ti muoiono anche un 20% di piante in un’alta densità, arrivi sempre a essere produttivo. C’è sempre il pro e contro in tutte le cose.”
“Ah, una cosa interessante delle Bonille è che lì son tutte terrazze. E quella è stata una cosa fatta molto molto bene pensando al problema delle bombe d'acqua e dell'erosione del suolo.”
Continua poi la storia della cantina, iniziando a parlare di Sofia che “è entrata qui nel 2010. Quindi lei ha deciso di prendere in mano l'azienda di famiglia che fino al quel momento era quasi sempre all'estero. Venivano qui come riserva estiva. Non c'era il ristorante, c'era solo la villa, le case e le figlie avevano tutte altri lavori.
Qui allora c'era l'azienda che andava avanti vendendo al monopolio vino sfuso.
Ecco Sofia, invece, ha avuto l’idea di iniziare a fare viticoltura di qualità concentrandoci sul Sangiovese. Il primo input l'ha dato in questo senso qua. Partendo da una realtà in cui, logicamente, suo padre, nell'88 quando ha comprato la proprietà, era stato più attratto dal mito dei vitigni francesi, visto il periodo: in quel tempo lì tutti piantavano Merlot e Cabernet.
E se non c'era un po’ di Merlot e Cabernet era proprio difficile arrivare ad un vino proponibile sul mercato.
Quindi la prima scelta di Sofia è stata quella di non piantare più vitigni francesi e di iniziare a concentrarsi sul Sangiovese. Tanto che la “ASofia” 2010 è il primo vino che ha fatto lei, che ha voluto proprio lei. Un Sangiovese in purezza con invecchiamento in botte grande.
E anche in questo è stata quasi anticipatrice perché comunque nel 2010 chi produceva Chianti Classico tutto da Sangiovese ce n'era pochi e soprattutto l'utilizzo delle barrique era sempre molto molto dilagante.
E qui fu anche consigliata bene dall’enologo Staderini che è stato qui per 20 anni fino a 3-4 anni fa. Lui aveva visto la potenzialità del nostro Sangiovese sulla botte grande e non sulla barrique perchè i tannini che si trovavano qui non venivano esaltati dal legno piccolo ma coperti.
Da qui l’idea di Sofia di iniziare a fare un Sangiovese “alla vecchia maniera”, in botte grande.”
Ma da quanto sono le botti? Chiede Massimiliano.

“Allora le botti variano. Noi andiamo dai 12 ai 30 ettolitri. Diciamo la ASofia sta sempre in botti intorno ai 24 ettolitri.
Anche sulle botti, Sofia, appena entrata, ha fatto un piano di cambio legni passando dalle botti tonde alle botti ovali e ogni 3-4 anni compra una botte nuova.”
Giacomo si sofferma un attimo proprio su questo discorso e mentre parla, un bagliore attraversa i suoi occhi. Si vede che è veramente tanto entusiasta della realtà con cui collabora.
”L’apice l'abbiamo raggiunto lo scorso novembre quando c'è stata consegnata la nuova botte. Costruita e pensata solo e proprio per la ASofia dal produttore altoatesino Mittelberger. La loro grande forza è che vengono qui, assaggiano il vino e vogliono sapere cosa tu vuoi avere da quel vino e allora studiano l'affinamento del legno e la fabbricazione della botte per avere proprio il risultato che vuoi.
Noi l'abbiamo provata prima sul bianco, sul nostro bianco Il Professore 2021 ma anche sul Sangiovese e ne siamo rimasti molto ma molto soddisfatti perchè quando si assaggia un vino dalla botte che non sa di legno ma sa di frutto del vino, ecco… allora quello è ciò che vorresti sempre sentire da una botte.
E il segreto è tutto nella stagionatura del legno! Conta tanto quanto il legno sia stato a stagionare all'aria aperta.”
Dopo questa bella divagazione sui legni, Giacomo riparte a parlare di come lavorano qui, a Terreno.
”La nostra prerogativa è quella di procedere per micro vendemmie e ogni appezzamento viene vinificato separatamente. Sulle selezioni e sulla riserva vinifichiamo in mastella aperta. Quindi in mastelli di plastica da 10 quintali col coperchio.
E il coperchio di solito nelle prime fasi si toglie per allungare la macerazione e poi si si ricopre per intrappolare quel residuo finale di CO₂ che protegge e non fa ossidare la vinacca. Tutto con follature manuali.
Abbiamo iniziato ad usare le mastelle aperte dal 2019/20 in poi e lì abbiamo visto veramente il cambio d'acquisto in complessità dei vini. Perché se uno vinifica la stessa uva su un contenitore d'acciaio e uno a mastella aperta… il mondo cambia!
Perché fondamentalmente ciò che comporta la mastella è il volume. 1000 chili sono il giusto rapporto tra peso e volume per avere un equilibrato incremento di temperatura, senza stress termici. Si ha poi una bella areazione del cappello e si controlla in ogni momento la fermentazione come va (e questo perché una volta che con le mani si spinge giù, dopo un'ora il cappello si è già riformato). Ecco, si ha proprio il sentore visivo di come procede una fermentazione.”
Qui interrompe il discorso arricchendolo con la sua passata esperienza da Isole e Olena: “…io mi ricordo che quando lavoravo ad Isole e Olena, scendevo la mattina con De Marchi in cantina e la prima cosa che si faceva era aprire i tini tronco conici (se non erano già aperti) e guardare il cappello com'era. Perché durante la vinificazione devi capire se il cappello si è ossidato, se è umido, che profumo ha, se c'è riduzione o meno,…”
“Ecco, con le mastelle, hai proprio tutto a portata di mano e di occhi. Il loro utilizzo comportava solo un problema di spazio ma l'abbiamo risolto eliminando 4 vasche di cemento che non usavamo più.
Perchè lo spazio? Eh considerate che noi abbiamo più di 20 mastelle in contemporanea. E la cosa buona appunto è che in ogni momento si ha visivamente il controllo della fermentazione. Arresti di fermentazione non ce ne sono… cosa che invece in un serbatoio d'acciaio molte volte o per temperature troppo basse o temperature troppo alte, qualche volta si ha. E comunque quella riduzione che c'è nell'acciaio, non avviene mai in mastella.
La mastella ci permette anche di fare un po’ di grappolo intero. Sì, sul Sillano soprattutto, un 10% di grappolo intero lo facciamo.
La mastella è veramente bella da questo punto di vista perché ti permette di far tante cose. Si svina a mano a secchi per cui anche la svinatura è proprio soffice. Ecco, pur non estraendo tantissimo (ma non non vogliamo estrarre tannini troppo importanti e robusti) ti mantiene una bella complessità e questo poi serve per avere un'evoluzione equilibrata anche in legno.
…ah le vinificazioni dei rossi partono con lieviti naturali. Abbiamo la fortuna di fare un piede di partenza portando dalle varie vigne i propri lieviti (anche se non è per niente semplice). Magari selezioniamo qualcosa di nostro già bello attivo e da questo punto di vista ci viene in soccorso il fatto che noi facciamo una base spumante da Sangiovese.
Nella produzione del Metodo Classico la prima pressatura, il primo liquido che viene dalla pressatura, di solito viene tolto perché più ricco di pruina che dà noia alla presa di spuma. E allora quei 50 litri di solito vengono messi da parte per preparare quello che chiamo “super 4”. Con l’aggiunta di un 4% di alcol si ha la sicurezza di abbattere gli apiculati e i lieviti che si sviluppano sono solo roba buona. Ecco, questa è la nostra bomba per far partire le prime fermentazioni!”
Ora Giacomo arriva al momento dei bianchi. Quelli che ci hanno colpito? Il professore, seppur blend di autoctoni e internazionali e il macerato di Trebbiano Toscano, chiamato Otto.
“Nel nostro bianco Il professore il tocco è dato assolutamente dal Petit Manseng che dà freschezza e dalla Roussanne che dà corpo al vino.”
Quello che ci ha colpito de Il professore è che al naso li percepisci tutti distintamente i sentori dei diversi vitigni del blend che poi, in bocca, si ricompongono in armonia, lasciando una scia fresca, sapida, a tratti leggermente tannica.
“Io sul bianco - continua Giacomo - prima lavoravo in barrique sullo Chardonnay. Qui invece li lavoriamo sulla botte grande. Quindi, anche sul bianco, Terreno vuole la botte grande. È particolare e interessante lavorare su una Roussanne che qui, nel Chianti Classico, non ha quasi nessuno. Lei ha questo grappolo che si gonfia abbastanza, molto soggetta anche un po’ alla botrite che però non spaventa perchè se uno raccoglie con un po’ di botrite entro il 5-10% gli dà il grasso, al vino.
La cosa bella di questo bianco Il Professore è l’essere una linguettina di mezzo ettaro sotto la villa del professor Grossi, da cui il nome del vino. Il professore di diritto costituzionale che ha bocciato mezza Firenze! Ma poi è stato anche, negli ultimi anni, presidente della Corte Costituzionale, ricoprendo una carica importante.
E lui era sempre contentissimo che gli si fosse dedicato una vigna e un vino! Andava al ristorante a Greve e voleva bere solo il “suo” vino!
Ecco, dicevamo… è davvero interessante questo vino che viene da questo mezzo ettaro di vigna con 17 filari di Petit Manseng, 40 di Ruossanne e poi Trebbiano e Malvasia ma vendemmiati tutti nello stesso momento. Quindi ogni vitigno apporta la sua predominanza e caratteristica.
Logicamente il focus è sulla Roussanne che è la parte maggiore visto che il blend è 40% Roussanne, 20% Petit Manseng, 20% Trebbiano Toscano, 20% Malvasia. Perciò si preferisce vendemmiare quando è la Roussanne ad essere arrivata a maturazione. Il Petit Manseng all’epoca non è ancora maturo anche se ha 15° di alcol e 11 di acidità totale da vitigno d'alta montagna, tipico per la sua acidità. Quindi a inizio settembre, quando la Roussanne è pronta si fa la raccolta,… e quindi sì, guida la Roussanne! Diciamo che se la Roussanne non è non è matura… non ha senso raccogliere! Gli altri due vitigni, a quell'epoca non sono ancora maturissimi e se il Trebbiano diluisce, la Malvasia da un tocco un po’ più floreale.”
Ma da dove nasce l’idea di questo bianco? gli chiedo.
“Ecco allora, loro volevano fare un bianco particolare. E all’epoca Staderini gli suggerì di non fare Chardonnay visto che lo stavano facendo tutti! Visto che è una vigna su sabbia facciamo una prova proprio con questi vitigni. La 2016 fu la prima annata ad entrare in commercio.”
E invece il vostro Otto? chiede Massimiliano.
“Ecco anche quella è stata un’idea di Sofia. La prima annata è stata il 2019. Su Sillano ci sono 2 ettari di vigna vecchia. Si tratta delle vecchie vigne (annata 1982) chiantigiane dove c'era misto: un po’ di Colorino, un po’ di Sangiovese e del bianco, delle belle piante di Trebbiano e Malvasia.
Da qui noi utilizzavamo Trebbiano e Malvasia fondamentalmente per fare il vinsanto.
Nel 2019 mi chiesi: ma perchè non ricavarci un Trebbiano particolare? E Sofia mi disse “vai, vai tranquillo, prova!”
Così i primi 2 anni li feci con una macerazione (non troppo spinta) di 8 giorni sulle bucce usando una barrique d'acciaio da 250 litri.
È dalla macerazione di 8 giorni sulle bucce che questo vino prende il nome di Otto, ma anche perché i nipoti della famiglia sono proprio 8.
Quindi una parte dell’uva viene vendemmiata per il vinsanto e l'altra lasciata sulla pianta a maturare un po’ di più per poi fare l'Otto.
La cosa particolare per questo vino è che nel 2021 abbiamo acquistato le Clayver in porcellana. Ed è proprio questo che arricchisce il vino di una nota minerale, speziata di pepe bianco - dolce di liquirizia, agrumata del limone, aggiungo io - mantenendo pulizia di profumi, senza mai andare in riduzione e dandogli una sorta di aria di mare.”
Si tratta proprio di quelle macerazioni che piacciono a noi, che non tolgono ma che esaltano il varietale!
Giusto un attimo di pausa, ci spostiamo all’esterno e poi nel cuore della cantina per un’intervista un po’ più personale per capire davvero l’anima di Giacomo.
Mentre camminiamo Giacomo ci dice che “Sofia ci tiene particolarmente a questo: Terreno è autosufficiente. L’acqua corrente viene dal pozzo, la corrente elettrica dai pannelli solari e riscaldiamo tutto col cippato.”
Camminando raggiungiamo la vigna di Sangiovese da cui nasce la Selezione ASofia e a Massimiliano viene in mente una curiosità: Ma l’avete mai provato l’alberello qui?Giacomo risponde subito: “Mmmm qui no perché qui, in questa zona qui probabilmente siamo troppo bassi, troppo vicino al suolo e poi si rischia di avere i vini troppo alcolici.”
In effetti si vede che son bastati solo 20 giorni di caldo asfissiante a giugno per far ingiallire l’erba tra i filari e far apparire un paesaggio quasi lunare.
Giacomo ci dice che di lì a poco avrebbero iniziato anche i trattamenti col caolino. Servono per far ispessire un po’ la buccia e proteggere l’uva dal sole.
Ci rimettiamo in cammino e arriviamo in quella che Giacomo chiama “la cantina vera e propria”.Quello che subito salta all’occhio è l’essenzialità, l’ordine e la pulizia dei locali. I pavimenti appena lavati, ovunque, e ancora umidi. L’odore di pulito. Ritorna l’influenza e l’impronta svedese e la professionalità della persona che Sofia ha voluto accanto a lei anche in cantina. Facciamo notare a Giacomo questi dettagli e lui ci risponde subito: “Beh vedete, sì, il Gambelli diceva che ci sono solo 3 cose di cui c'è bisogno in cantina… pulizia, pulizia, pulizia per cui diciamo che quello è una prerogativa che serve!”.
Ci soffermiamo un attimo davanti alle botti. Io preparo microfoni e tutto l’occorrente per registrare l’intervista diretta e personale a Giacomo. Mi rammento sempre che ci vuole di più a preparare tutti gli attrezzi del mestiere che a fare l’intervista. Intanto gli lascio il foglio con le domande da affrontare. Cala il silenzio in cantina. Giacomo divora in silenzio le domande. È pronto, in un lampo. E io parto. Emozionata come sempre quando cerco di scoprire i perchè delle persone.
Descrivi la tua personalità in 3 parole.
“Eh questa è difficile! Ti direi appassionato, allegro e scrupoloso.”
Un vino che ti ha cambiato la vita?
“Il Cepparello!”
Vitigno preferito e perchè.
“Ti dovrei dire Sangiovese perchè lavoro nel Chianti Classico però io sono appassionato del Syrah, mi piace molto la sua speziatura!”
Ma da dove sei partito per fare ciò che stai facendo adesso?
“Da un tirocinio per evitare il militare. Alle volte sai che anche da un tirocinio si aprono delle opportunità. Il mio professore di chimica del suolo con cui mi stavo laureando all’università di Firenze mi disse… guarda pensa al mondo del vino per un futuro! All’Università non c’è posto. E lo ringrazio tutti i giorni per quello che mi ha detto.”
Il vino per te in 3 parole.
“Il vino è natura, il vino è cultura. Sono un po’ di più ma va bene lo stesso!”
Cosa diresti a chi inizia oggi a fare il tuo lavoro?
“Che bisogna sporcarsi le mani. Che se non si inizia dal basso a capire come avvengono i lavori in vigna e in cantina e non si ha tanta passione, poi diventa più complesso poter arrivare a ruoli importanti o avere maggiori soddisfazioni. Per cui non bisogna aver paura di fare la gavetta e partire dal basso.”
Ecco, in poche ma essenziali parole di sostanza, chi è Giacomo e chi ha voluto Sofia al suo fianco nel progetto Terreno. Una persona umile, pacata, coi piedi per terra, determinata, mossa dall’onestà intellettuale e dalla dedizione per quello che fa, sempre.

Inizia a farsi tardi, ci spostiamo ora nella barriccaia e prima della fine della visita mi viene in mente un’ultima domanda. Poi Giacomo, sarà finalmente libero!
Giacomo ma lo stemma di Terreno che significa?
“Eh nello stemma c’è la storia della famiglia Ruhne. A partire dalla lettera R che riprende il loro cognome ed è rappresentata nell’alfabeto runico. E poi la barca, perchè il padre di Sofia importava banane dal Sud America con una flotta di navi. E poi questa non è una Luna ma è una banana - dice indicando la parte alta dello stemma. La foglia di vite e il grappolo a chiudere il cerchio attuale. Questo è il loro stemma.”
Prima di salutarci Giacomo lascia ancora un’altra impronta del suo essere. Parole che raccontano la sua anima più di mille nostre interpretazioni: “…sapete che poi alla fine lavoriamo con un’industria a cielo aperto fondamentalmente. E le insidie sono brutte e continue. E sempre di più purtroppo con questo clima un po’ pazzo. Non ci si annoia mai anche in questo senso… che è sempre tutto diverso, tutte le vendemmie vanno fatte in modo diverso, non c’è mai una standardizzazione e questo è il bello! Si ha la stessa tipologia di vino ma l’annata deve esserci dentro. Sennò si perde il succo della cosa.”
Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo:
- Chianti Classico Magazine n. 14 Luglio 2017, “Un Geologo nel Chianti Classico” di Andrea Garuglieri e Caterina Mori
- Il primo incontro con Sofia a Firenze dove abbiamo conosciuto i suoi vini
- Il pomeriggio passato a Terreno in compagnia dell’enologo che cura i suoi vini, Giacomo Fioravanti
Photo credits:
- le foto di copertina, il primo piano di Sofia e la vista sulla cantina nella hall del Winery Hotel vengono dal sito e dai profili social della cantina Terreno